Eventi

La libertà nella prospettiva delle scienze umane - Libertà e traduzione letteraria

Dettaglio de La Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti.
Dettaglio de La Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti.

Servizio comunicazione istituzionale

Continua il ciclo di interviste La libertà nella prospettiva delle scienze umane in collaborazione con l’Istituto di studi italiani dell’USI. In questa puntata Fabio Pusterla, professore di lingua e letteratura italiana all'USI, approfondisce il rapporto tra libertà e traduzione letteraria. 

 

Professor Pusterla, Che cosa è innanzitutto la traduzione letteraria?

La traduzione letteraria, pensiamo oggi, è una forma di scrittura molto particolare, in cui il “cosa scrivere” preesiste alla scrittura, mentre il “come scrivere” è, esattamente come nella scrittura in proprio, una costante avventura e invenzione. In questo difficilissimo esercizio, la poetica dell’autore entra in contatto con la poetica del traduttore, con effetti di notevole complessità. Il testo, scritto nella sua lingua originale, porta dentro di sé un dialogo con la tradizione che sta alle sue spalle, con le opere che l’autore aveva letto e prediletto, con il tempo in cui è stato scritto; e la traduzione dovrà tener conto di questi aspetti, e insieme tuttavia aggiungerne di nuovi: perché la lingua della traduzione, cioè il nuovo spazio linguistico e culturale che il testo originale finirà per abitare, apre a sua volta degli orizzonti di riferimento. Considerata in questo modo, la traduzione è davvero un campo di forze straordinario, e non semplicemente, come si pensava un tempo, un’operazione di servizio.

 

In quale misura libertà e traduzione sono legate?

La libertà è, o dovrebbe essere, per uscire dalla genericità di un termine di cui oggi si abusa spesso, una costante dialettica tra diritti e doveri, tra desiderio sconfinato e limite necessario. In questo senso, la traduzione presenta notevoli analogie con questa visione della libertà: sono libero, traducendo, di esercitare al massimo grado le mie capacità inventive e creative; ma nello stesso tempo sono vincolato dalla necessità di essere rispettoso dell’originale, di instaurare con quel testo un dialogo leale. Un tempo si sarebbe parlato di fedeltà: ma questo è un termine che rischia di creare troppi malintesi. Meglio accontentarsi della lealtà, che mi sembra aprire un orizzonte più vasto e meno ambiguo. La lealtà, in effetti, lascia un ampio margine d’azione al traduttore, ma insieme lo vincola a un patto originario, profondo.

 

Come dev’essere, dal suo punto di vista, l’attività del traduttore? C’è, per esempio (o dovrebbe esserci), una differenza di approccio o di stile tra il traduttore più “tecnico” e il traduttore letterario?

Le due diverse figure di traduttore, quello letterario e quello tecnico, hanno ovviamente qualcosa in comune, ma vivono anche situazioni molto diverse. Il traduttore tecnico deve di solito lavorare velocemente; è pagato piuttosto bene; traduce testi che hanno un’utilità pratica (bugiardini, testi pubblicitari, manuali d’uso, regolamenti e leggi, e così via), e deve di solito stare molto attento al preciso significato delle parole, al registro tecnico da utilizzare, e molto meno agli aspetti stilistici del testo. Quello letterario, invece, può di solito prendersi il tempo necessario per entrare nel testo da tradurre e lavorarci su con molta calma; è pagato poco (o a volte anche nulla); e sente come dovere prioritario di restituire l’intonazione stilistica del testo originale. Inoltre, il traduttore tecnico per lo più non sceglie cosa tradurre: riceve un incarico o una commissione e si mette al lavoro. Nel caso del traduttore letterario, invece, le affinità elettive possono giocare un ruolo importante. Non credo che io sarei capace di tradurre un testo che non mi piace o che non capisco, per esempio.

 

Secondo lei si può dire che il traduttore è un secondo autore?

Come ho già suggerito prima, credo di sì. A condizione, si capisce, di non enfatizzare troppo questo aspetto, di non attribuire a questo “secondo autore” un’eccessiva autonomia, un’eccessiva libertà d’azione. Il traduttore è senz’altro una specie di autore, anche quando non può vantare un’opera in proprio: lo è nell’atto stesso di tradurre; ma nel contempo un traduttore è anche sempre un servitore del testo originale, di cui avverte in ogni momento del suo lavoro la forza e l’importanza. Visto in quest’ottica, il traduttore è, per riprendere delle immagini molto antiche, contemporaneamente cavaliere e scudiero (e del resto l’Angelica sempre sfuggente dell’Orlando Furioso, che potremmo anche essere tentati di identificare con la poesia del testo, sceglierà Medoro, non uno dei più famosi cavalieri che la inseguono per tutto il poema. Come dire, continuando la lettura metaforica, che la poesia può offrirsi tanto al traduttore/scudiero che all’autore/cavaliere, e non è detto che il secondo abbia più meriti del primo).

 

In quale modo si sente legato al testo originale?

Oltre a ciò che ho già in sostanza detto, potrei aggiungere una cosa, anche per riprendere una parte di domanda che ho trascurato. Anni or sono, partecipando da traduttore letterario a un’assemblea di traduttori tecnici, ho chiesto ad alcuni di questi ultimi quale fosse per loro il tipo di testo più difficile da tradurre (in letteratura diremmo: il testo formalmente più complesso e strutturato, che spesso identifichiamo con il testo poetico). Dopo una non brevissima consultazione mi hanno risposto: le istruzioni per i giochi di società sono la cosa più difficile da tradurre, perché prima bisogna imparare a giocare, e solo dopo si può tentare di lavorare sul testo. In un certo senso, mi pare che qualcosa di analogo avvenga con la traduzione letteraria: prima di iniziarla, io devo entrare profondamente nelle maglie del testo originale; devo imparare ad abitarlo, ascoltare la sua voce più recondita, giocare il suo serissimo gioco. E poi, provare  a reinventare queste cose in un’altra lingua, in un’altra dimensione.

 

Quali cose si sente libero di cambiare e quali no? Come si fa a capire cosa si possa fare?

Non ci sono risposte assolute. Se la traduzione, come qualcuno ha sostenuto, è “l’atto critico supremo”, vorrà dire che il traduttore dovrà compiere delle scelte importanti e dolorose. Quale aspetto del testo che sto per tradurre mi sembra in linea di massima irrinunciabile, così importante da subordinare a quell’aspetto le eventuali perdite in altre zone del testo? Insomma, la traduzione è sempre un’interpretazione, come vediamo chiaramente confrontando fra di loro il lavoro di traduttori diversi che si sono occupati di uno stesso testo. Per fare soltanto un esempio: come tradurre Les Fleurs du Mal di Baudelaire, cioè un’opera capitale in cui il dialogo tra nitore formale e aspetti semantici sulfurei è condotto all’incandescenza e alla perfezione? Cosa privilegiare durante la traduzione: il ritmo, il metro, le rime, l’organizzazione retorica del testo, l’orizzonte semantico e immaginifico? Non c’è un’unica risposta, né tantomeno una risposta giusta. I molti traduttori che si sono cimentati con questo capolavoro hanno compiuto molteplici operazioni interpretative e stilistiche, nessuna delle quali è assolutamente giusta o assolutamente sbagliata.

 

Se dovesse dare dei consigli a chi si approccia a questa occupazione?

Io non sono un traduttore professionista, non ho mai vissuto la traduzione come un vero e proprio lavoro, ma come una forma di esplorazione del linguaggio e della cultura, diversa e solidale rispetto alla scrittura poetica che provo a praticare. Forse per questo, non saprei dare consigli precisi; ma potrei riprendere le belle e ironiche parole con cui un poeta, Aurelio Buletti, rispondeva tanti anni fa a una domanda non troppo dissimile: cosa consiglierebbe a un giovane che intenda dedicarsi alla poesia? Buletti rispose: “modestia, pazienza e illusione dell’immortalità”. Mi sembrano parole chiare, parole abitabili (anche questa, se ben ricordo, è un’espressione di Buletti), che potrei sottoscrivere. E se i primi due ingredienti, la pazienza e la modestia, inducono giustamente alla cautela, alla diffidenza nei confronti delle iperboli, l’ultimo è quel soffio di vento e di utopia che attraversa tutte le forme di scrittura, traduzione compresa.