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La libertà nella prospettiva delle scienze umane - Nazione, patria e libertà nel '900

Servizio comunicazione istituzionale

Le vicende drammatiche cui stiamo assistendo nel cuore dell’Europa conferiscono una pregnante attualità a concetti quali libertà, nazione, patria. Per questo motivo, il secondo appuntamento con il ciclo Riflessioni sulla libertà. Uno sguardo alle scienze umane, vuole approfondire il significato e la portata storica di questi termini con l'aiuto di Massimo Baioni, docente di Storia contemporanea presso l’Istituto di studi italiani dell’USI.

 

Che possiamo dire in apertura? 

L'attualità e la cronaca di questi giorni ci permette di osservare come, all'interno della propaganda che accompagna e sostiene le operazioni militari, ciascuna parte ricorra a un sedimentato patrimonio di immagini, rappresentazioni, formule retoriche per legittimare sul piano politico e simbolico le ragioni dell’invasione da un lato, quelle della resistenza dall’altro.

Il fenomeno non sorprende. Nell’età contemporanea, a partire dall’accelerazione impressa dalla Rivoluzione francese, quei concetti hanno assunto significati differenti, che hanno inevitabilmente risentito dei contesti di riferimento. Da un punto di vista storico, osservando cioè le trasformazioni che danno il senso alla presenza degli uomini nella società nel tempo (Marc Bloch), è dunque importante evitare generalizzazioni che impediscono di cogliere l’intreccio di continuità e rotture che attraversano il corso di fenomeni così complessi.

 

Quali sono i passaggi che segnano l’esordio di questi concetti nell’età contemporanea?

Decisiva risulta la frattura rivoluzionaria di fine XVIII secolo: sottratta alla sua pretesa origine divina, la legittimazione del potere fu trasferita al corpo della volontà popolare, con effetti dirompenti sulla vita politica e sui linguaggi e le pratiche dell’educazione patriottica.

Durante il “lungo Ottocento” europeo, la libertà dei popoli fu inestricabilmente connessa in molti paesi con l’affermazione dei principi di nazionalità, la richiesta della costituzione, l’aspirazione allo stato-nazione. La “primavera dei popoli” del 1848, con i moti esplosi in tante città europee, ben restituisce gli echi di quelle parole-forza, così come le speranze, i risultati, le sconfitte: al tempo stesso quegli eventi fanno affiorare le diverse interpretazioni che ne davano le forze impegnate sul terreno della competizione politica e dell’organizzazione della società (liberali moderati, democratici, socialisti, cattolici, ecc.).

 

Ci sono delle similitudini o delle rotture tra '800 e '900?

Vi sono studiosi che sottolineano la continuità tra il nazionalismo ottocentesco e quello che si afferma nel Novecento all’interno di regimi quali il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco (ma non solo). Nessun dubbio che nel “discorso” nazionale siano rintracciabili formule che si ripresentano puntualmente nel tempo: la nazione come comunità di discendenza, l’onore, il martirio, i codici e simboli religiosi applicati alla “nuova politica” di massa. D’altro canto, le medesime parole hanno avuto significati e impatti profondamente diversificati nei singoli momenti e contesti in cui sono entrate in relazione con la società. Il connubio di nazione e libertà quale si trova, per citare un caso esemplare, nel pensiero di Giuseppe Mazzini fu sottoposto a una progressiva erosione a cavallo del secolo: si sviluppò da allora anche un nazionalismo di tipo nuovo, sempre più legato alla gara imperialistica e proteso a esaltare il carattere esclusivo della nazione.

 

Sono state osservate differenze in questi modelli nel periodo tra le due guerre mondiali?

In sostanza, tra la patria e la nazione di origine ottocentesca e quelle sfociate nella loro versione aggressiva della prima metà del Novecento corre, a mio parere, una differenza che va colta sul piano delle trasformazioni che intaccarono il discorso nazionale e la stessa idea di libertà. Negli anni della Grande guerra (1914-18) varie concezioni di libertà, nazione, patria furono evocate per sostenere lo sforzo bellico: ne furono portavoce, tra gli altri, i nazionalismi più radicali, i rivoluzionari bolscevichi, gli Stati Uniti con i 14 punti di Wilson. Nei decenni che intercorrono tra le due guerre mondiali, i tre modelli prevalenti (liberalismo parlamentare, fascismo, comunismo) incarnarono le rispettive ambizioni di plasmare i contorni di una nuova società. Nel caso dei regimi totalitari, le libertà e i diritti dell’individuo cari alla dottrina liberale cedettero il posto al ruolo dello Stato e del Partito, che si arrogavano il compito di “educare” i cittadini ai valori della rigenerazione nazionale.

 

E per quanto riguarda la seconda metà del Novecento?

A partire dalla seconda guerra mondiale, libertà, patria, nazione non hanno cessato di esercitare la loro influenza. Si pensi al fenomeno della Resistenza europea e alla lotta di liberazione contro il nazifascismo: oppure ai processi di decolonizzazione, che hanno fatto leva proprio sul principio dell’autodeterminazione dei popoli, sulla libertà da conquistare, su un nazionalismo che si è intrecciato con le nuove ideologie terzomondiste. Non meno lineare è stato lo scenario successivo alla crollo del muro di Berlino, che ha posto fine alla polarizzazione ideologica della guerra fredda. La riconquistata libertà da parte dei popoli dell’Europa centro-orientale ha assunto connotazioni specifiche nei singoli contesti nazionali, riattivando concezioni della patria e della nazione che sembravano tramontate. Le guerre che hanno lacerato i territori della ex Jugoslavia sintetizzano tragicamente tutte le contraddizioni di quel processo.